MINDFULNESS E ANSIA
MINDFULNESS AND ANXIETY
FILIPPO ULISSE CREMONA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE PSICOLOGICHE, COGNITIVE E
PSICOBIOLOGICHE
UNIVERSITA DEGLI STUDI DI PADOVA
Elaborato Finale
INTRODUZIONE
La mindfulness è un costrutto ampio, sulla base del quale sono state sviluppate alcune forme
di intervento in ambito psicologico. Le idee che essa propone non si riferiscono a casi clinici
particolari, ma piuttosto riflettono una visione generale dell’ uomo e del suo modo di
rapportarsi al mondo e con se stesso, presentando pertanto aspetti che possono apportare
benefici ad un’ampia gamma di persone (Kabat-Zinn, 1996), comprendendo anche chi non
soffre di problemi psicologici clinicamente rilevanti. L’obbiettivo dell’approfondimento del
seguente elaborato è quello di investigare i fattori cognitivi di questa prospettiva che si
rivelano utili nei casi di disagio psicologico causato da livelli elevati e persistenti di ansia,
senza riferirsi a quadri diagnostici specifici. Per fare ciò occorre prima presentare la suddetta
teorizzazione, e le pratiche che ne derivano, nella loro forma generale, estrapolando solo in un
secondo tempo gli aspetti di interesse specifico nei casi d’ansia.
CAPITOLO UNO
MINDFULNESS: DEFINIZIONI, ORIGINI E PRATICHE
La parola mindfulness ha un significato molto ampio e difficile da riassumere, soprattutto se
non si vuole rischiare di tralasciarne alcune componenti importanti. Questo termine viene
usato in differenti ambiti, in relazione ai quali si sposta l’enfasi fra i vari aspetti che essa
include, ed è per tale ragione che è assai difficile definirlo all’infuori di un contesto.
Mindfulness indica una modalità di coscienza che, in questo quadro teorico, è intesa come
uno stato mentale caratterizzato da particolari processi attentivi rivolti alla propria esperienza
presente. Tale approcio è stato sviluppato nella tradizione Buddhista, e presenta alcune idee di
fondo, relative al rapporto che l’uomo instaura con gli eventi cui assiste, che sono diverse da
quelle che la cultura occidentale propone. Sulla base di queste sono state sviluppate varie
pratiche che permettono di assumere un orientamento meta-cognitivo ed attentivo particolare
rispetto ai propri pensieri, emozioni e sensazioni, al fine di ridurre la sofferenza psicologica
delle persone. Nella letteratura scientifica occidentale la mindfulness viene usata in
riferimento alle idee che ne costituiscono le fondamenta, alle pratiche che vi si basano, agli
obbiettivi che essa si pone ed alle caratteristiche del processo che caratterizza la coscienza di
chi vi si avvicina (Kabat-Zinn, 2008). Di seguito si spiega che cos’è questo costrutto
esponendone i vari aspetti che ne fanno parte tramite le sue complesse definizioni
operazionali, il contesto culturale e teorico nel quale è stato originato e le modalità pratiche
che ne permettono lo sviluppo.
IL TERMINE
Il termine “mindfulness” cerca di tradurre in termini occidentali un concetto che ha origine
nella tradizione psicologica orientale, in particolare in quella Buddhista (Raza, 2012), e che è
espresso dal termine Sati, in pali, la lingua morta nella quale sono stati riportati
originariamente gli insegnamenti del Buddha (Mikulas, 2007). Le definizioni di mindfulness
non sono interamente condivise fra gli studiosi, in quanto questo termine include una varietà
di significati che si riferiscono a vari aspetti di concettualizzazioni e pratiche (Kabat-Zinn,
2008; Bishop et al, 2004).
La mindfulness come consapevolezza, attenzione e ricordo
La prima traduzione della parola Sati in un dizionario occidentale risale al 1921, ed indica
consapevolezza, attenzione e ricordo. Questo termine può indicare una modalità attentiva o
mentale (Segal, Williams & Teasdale, 2002) di rapportarsi alle proprie esperienze personali,
interne ed esterne. La parola modalità è utile, in quanto concilia le idee di stato e processo,
riferendosi quindi al modo in cui viene prestata questa attenzione (Bishop et al, 2004).
Secondo la definizione più diffusa, la mindfulness indica lo stato di “consapevolezza che
sorge portando intenzionalmente l’attenzione nel momento presente, in modo non giudicante”
(Kabat-Zinn, 2003), ma, al tempo stesso, indica il processo secondo il quale si “presta questa
attenzione”. Il “pioniere dell’ applicazione terapeutica della mindfulness in occidente”
(Siegel, Germer & Olendzky, 2008), Jon Kabat-Zinn, afferma che essa è al tempo stesso il
fine, i metodi (o le pratiche), il risultato e gli effetti (Kabat-Zinn, 2008). La parola attenzione
indica l’”attenzione sostenuta” (Bishop et. Al., 2004), cioè l’abilità di mantenere uno stato di
vigilanza prolungato su un oggetto scelto (Posner, 1980, in Bishop et al, 2004). Essa
normalmente all’inizio si focalizza sul respiro, per essere successivamente allargata verso tutti
i tipi di informazione che giungono alla nostra coscienza, cioè la totalità di pensieri,
sensazioni e sentimenti presenti nell’esperienza del momento attuale. In altre parole si può
anche dire che tale processo implichi il portare l’attenzione sul flusso di dati sensoriali che
arrivano all’ esperienza attraverso le “porte dei sensi” (Siegel et al, 2008). Si anticipa qui che
nella ideologia buddhista la mente è considerato il sesto senso percettivo, pertanto una di
queste porte è l’attività mentale. Il termine consapevolezza è preferito rispetto a conoscenza in
quanto esso vuole esprimere qualcosa di non concettualizzabile (Kabat-Zinn, 2008), ed indica
una comprensione profonda delle relazioni e funzioni degli elementi osservati, che devono
essere considerati solo eventi che si presentano alla coscienza (Bishop et al, 2004). Un idea
alla base di questa teorizzazione è che i pensieri sono solo pensieri (Giommi, 2006), e che
spesso le persone identificano se stessi e la realtà con questi, come se fossero ciò che siamo o
ciò che è (Segal, Williams & Teasdale, 2006); perciò imparare ad osservarne i cambiamenti
con un po’ di distanza significa contestualizzarli e dare loro il valore vero che hanno (cioè
quello di solo pensieri), indipendentemente dal loro valore emozionale. Così si bypassano i
meccanismi di condizionamento e di significato, che in questa prospettiva costituiscono il
filtro attraverso cui la mente osserva e distorce la realtà (Mikulas, 2007), permettendo così
una comprensione relativa a natura e funzionamento della prima. In altri termini la
consapevolezza indica un semplice prendere atto di quelle che sono le nostre esperienze
attuali, interne ed esterne. Il terzo concetto che esprime la traduzione di Sati è ricordo. Questo
non fa riferimento all’idea di passato, infatti questa “disciplina della coscienza” (Kabat-Zinn,
2003) valorizza la considerazione esclusiva del “qui ed ora”, ed i pensieri di ricordo del
passato devono essere osservati in quanto eventi dell’esperienza presente. Ci si riferisce
piuttosto all’idea di ricordare di mantenere questa “modalità mentale” durante ogni momento
della quotidianità (Siegel et al, 2008).
La definizione di mindfulness in relazione al disagio psicologico
Vari autori hanno lavorato per creare una definizione operativa di mindfulness, ed alcuni lo
hanno fatto dividendo il concetto in due componenti, la prima delle quali è espressa dalla
descrizione fatta fino ad adesso, che si riferisce al “significato classico”, ossia le fondamenta
più essenziali di questa prospettiva. Quando viene adottata allo scopo di alleviare alcune
specifiche condizioni di disagio la mindfulness comincia ad includere altre qualità mentali
oltre a quelle rappresentate dalla traduzione della parola sati (Olendzky, 2008). Di
conseguenza sono state elaborate definizioni molto complesse e diversificate fra di loro, che
in molti casi hanno la valenza di “istruzioni” che il praticante può seguire, e che valorizzano
maggiormente la pratica, vista come un processo utile in risposta a difficoltà personali di tipo
psicologico. La mindfulness, qui intesa come metodo, viene investita di finalità varie, che
spostano l’enfasi su differenti concetti inclusi nel costrutto di base in relazione ai problemi
che creano disagio alle persone che la praticano. La definizione più diffusa rimane la
sopracitata di Kabat-Zinn, che comprende una vastità di elementi espressi in modo
“essenziale”, mentre più elaborata ed attuale è la seconda componente di quella proposta da
Bishop e colleghi (2004), nella quale si pone enfasi sulle qualità che devono essere proprie di
questo orientamento diretto all’esperienza. L’attenzione proposta infatti è caratterizzata da:
curiosità, apertura ed accettazione (Desrosiers, Klemanski & Nolen-Hoeksema, 2013; Bishop
et al, 2004). La curiosità indica la volontà di osservare qualsiasi oggetto a cui la mente attinge
quando si sposta da quello scelto per mantenere l’attenzione sostenuta (nella maggior parte
dei casi il respiro)(Siegel et al, 2008); l’apertura chiarisce invece il fatto di non rifuggire i
contenuti non desiderati, come le emozioni sgradevoli; infine l’accettazione è il concetto più
importante di questo costrutto quando è usato in ambito clinico, al punto che frequentemente è
specificata in affiancamento alla parola mindfulness. Il focus è infatti centrato su tutti i dati
che si presentano, ed i praticanti sono invitati ad eliminare qualsiasi narrativa o giudizio
concettuale (Olendzky, 2008), per considerare solo ciò che arriva alla consapevolezza durante
l’esperienza del qui ed ora, rinunciando a tutti i giudizi o le interpretazioni. Questo implica
non considerare cosa è desiderato, poiché ciò pone sempre in relazione ad aspettative riposte
nel futuro o fantasie legate a realtà che non sono quella del momento presente. Significa
interrompere per un momento la considerazione della discrepanza fra ciò che si ha e ciò che si
vorrebbe avere, che si è e che si vorrebbe essere, che è o che si desidera (Borkovec, 2002). Le
valutazioni, e le aspettative verso il futuro sono alla base della creazione del nostro
orientamento finalizzato alla modificazione di qualcosa che è presente, e quindi non
considerare questa dimensione significa accettare la realtà esattamente per come essa ci si
presenta nel momento in cui la osserviamo (Segal et al, 2002). A questo proposito Brown e
Ryan (in Raza, 2012) criticano la seconda componente del modello proposto da Bishop e
colleghi, in quanto ritengono inutile la presenza del concetto di accettazione nel costrutto
operazionale. La loro tesi è che mantenere un attenzione aperta e ricettiva sottintende che
l’oggetto osservato sia accettato nella sua natura per come si presenta, poiché altrimenti
questa si sposterebbe altrove, o filtrerebbe l’osservazione di questo oggetto, che non sarebbe
quindi percepito per come è. In risposta, Raza (2012) afferma che è importante la sua
inclusione nella definizione, ma considera superflua la sua misurazione operativa, in quanto
l’accettazione si potrebbe integrare come componente dell’abilità di “attenzione focalizzata”.
Infine, ci sono vari elementi che possono essere considerati come implicati nel concetto di
mindfulness, ma che non partecipano alla definizione operativa di questa. Per esempio
nell’ottica degli scopi della mindfulness possiamo considerare centrali i concetti di insight e
di prospettiva decentrata (Dobkin, 2008). Questa porta infatti ad una conoscenza intuitiva,
non concettuale, che quindi sarebbe difficilmente raggiungibile secondo le modalità della
logica verbalizzabile, troppo complicata da filtri esperienziali, condizionamenti e giudizi che
comunemente guidano il pensare ed il rapportarsi alle esperienze (Segal et al, 2002). La
prospettiva decentrata invece indica una posizione di relativa distanza da se stessi che si
assume durante la pratica formale. Frequentemente si considerano i pensieri come
identificanti di quello che si è, non farlo significa prendere le distanze in un qualche modo da
se stessi; considerarli come solo pensieri permette di osservarli con un po’ di distanza, e di
integrarli come “parte” dalla realtà del proprio vissuto. Paradossalmente la coscienza è spesso
lontana dalla propria esperienza presente, impegnata a contemplare il passato o ad aspettare il
futuro, e quindi riprendere contatto con quello che si sta vivendo nel momento attuale può
portare a sentirsi distanti da quello che si credeva essere quando ci si fondeva con i propri
pensieri, identificandosi con la storia narrativa che da origine al senso del sè.
IL BUDDHISMO E LA MIDFULNESS
Molti concetti dalla base della mindfullness occupano un ruolo centrale nella tradizione
Buddhista, il cui obbiettivo è quello di ridurre la sofferenza personale (Bishop et. Al, 2004).
Sebbene tanti siano presente in diverse ideologie, quella del Buddhismo “essenziale” è la più
adatta a dare un confronto produttivo e reale con la scienza occidentale (Giommi, 2006).
Pertanto, il paragrafo che segue propone un sunto del “modello psicologico” proposto dagli
insegnamenti del Buddha che non riguarda direttamente la mindfulness, ma che è essenziale
per comprendere in che contesto questa ha ricevuto la sua articolazione più elaborata e
coerente (Kabat-Zinn, 2008).
Il Buddha: l’uomo
È importante chiarire che il Buddhismo non si propone ne come una filosofia ne come una
religione (Mikulas, 2007), e che qui sono illustrati quei concetti che hanno un potenziale
rilievo in ambito psicologico. Il termine “Buddhismo essenziale” è stato inventato per riferirsi
ai principi fondamentali di questo pensiero, attribuiti allo storico Buddha, e che sono
considerati alla base di tutte le principali scuole buddhiste (Mikulas, 2007). L’ipotesi che
addestrare la mente sia il mezzo più importante per raggiungere la salute psicologica e fisica è
radicata in oriente fin dall’antichità, e lo dimostrano varie immagini di yogi in meditazione
che risalgono a 4000 anni fa (Siegel et al, 2008). Il Buddha storico, secondo la tradizione, era
un principe vissuto circa 2500 anni or sono, il suo nome probabilmente era Siddhatta
Gautama, ed è stato lui a descrivere in maniera articolata molti concetti che sono alla base
della minfulness (Olendzky, 2008). Egli non voleva costruire una religione, infatti ha sempre
riconosciuto la sua natura umana, disconoscendo l’idea di “forze” esterne o divine, e
rifiutando il dogmatismo o la venerazione della sua immagine (Mikulas, 2007), allontanandosi
peraltro da soluzioni filosofiche rifiutando eventuali speculazioni su questioni metafisiche
(Rahula, 1974, in Mikulas, 2007).
L’uomo costruttore della sua realtà
Secondo il Buddha il corpo e la mente sono risultato di cause materiali, ma possono
comunque diventare mezzo di una profonda esperienza di trascendenza, in seguito a processi
che permettono una trasformazione radicale del funzionamento della seconda (Siegel et al,
2008). Il Buddhismo essenziale propone una visione della psiche dell’uomo che riconosce
l’esperienza come un processo di elaborazione di dati grezzi, che giungono alla coscienza
attraverso le sei porte sensoriali (o organi di senso). Si pensa che la sesta porta sia la mente, e
che essa sia parte integrante del meccanismo che costruisce i significati partendo dalla raffica
di dati ambientali che si ricevono. Questo meccanismo è costituito da cinque “categorie”, o
“sistemi”, sulla base dei quali vengono elaborate le informazioni. Esse sono: la forma
materiale (la base biologica di mente e corpo), la coscienza (intesa come processo di presa
coscienza di un oggetto), la percezione (che identifica quale oggetto sulla base di categorie
pre-acquisite), la sensazione (ossia la tonalità affettiva evocata), e la formazione. Mentre le
prime danno un senso alle cose, quest’ultima riflette la formulazione della componente
intenzionale che porta all’azione finalizzata. Tale processo è così dinamico e veloce che
spesso sfugge alla consapevolezza, ed arriva (per vie euristiche) a creare la volontà, conscia
oppure inconscia. Questi meccanismi, che sono rinforzati dai feedback, danno vita alle
tendenze, dalle quali si originano i meccanismi abituali, che sono alla base della perdita di
consapevolezza nella quale molti di vivono, il cosiddetto pilota automatico (Segal et al 2002).
La coscienza, nei termini di questa teorizzazione, può essere intesa anche come un processo
attentivo, e non può essere stabile in quanto la realtà è considerata come un insieme mutevole
di eventi separati e interdipendenti. L’idea che esista un flusso di coscienza è data dal fatto
che spesso si collegano insieme tali elementi dandogli un unità, e non considerando che,
anche se sono relazionati fra di loro, non sono un entità unitaria. In questo modo si formulano
le varie narrative mentali che permettono di creare idee generali partendo da fatti separati
(come se fossero i fotogrammi di un film), distorcendo pertanto la realtà. In questo la
concezione Buddhista ha implicazioni importanti relativamente ad un concetto fondamentale
per la psicologia clinica occidentale, il “senso del sé”. Esso, secondo questa prospettiva, si
crea sulla base di un “fraintendimento di fondo”, in quanto si estende unificando momenti
temporali separati e differenti. (Siegel et al, 2008).
Le quattro nobili verità e la midfulness
Il Buddha formulò dei concetti noti come le “Quattro Nobili Verità”, che secondo Kabat-Zinn
sono articolati secondo una struttura di tipo medico (Kabat-Zinn, 2008). I primi tre sono: nella
vita esiste sofferenza (diagnosi), ci sono delle cause per questa sofferenza (eziologia), la
libertà dalla sofferenza è possibile (prognosi favorevole). La quarta verità (il trattamento) è
rappresentata da un percorso chiamato “Ottuplice Sentiero”, che racchiude otto elementi
(Roth &Calle-Mesa, 2006, in Kabat-Zinn, 2008), propedeutici per la “liberazione della
sofferenza”. Fra essi si inserisce la mindfulness , che rappresenta uno (e solamente uno) degli
otto passi indicati. Infatti tale modalità (da sola) non è considerata sufficiente per raggiungere
la felicità, ma essa, attraverso la coltivazione di una profonda comprensione del
funzionamento della mente, e di come questa genera il disagio(Siegel et al, 2008), fornisce
delle fondamenta necessarie per la ricerca della suddetta (Kabat-Zinn, 2003). L’idea
fondamentale alla base di questa teorizzazione è che la mente può comprendere e guarire se
stessa (Dalai Lama, Benson, Thurman, Goleman & Gardner,1991; in Olendzky, 2008).
PRATICARE LA MINFULNESS
Come sottolineano molti autori si può parlare di mindfulness o scriverne intere pagine, ma per
comprenderla veramente occorre farne esperienza diretta (Olendzky, 2008), poiché essa
descrive un esperienza che non è concettuale ne linguistica, rivelandosi pertanto difficile da
descrivere con i termini dell’apparato teorico occidentale in quanto, culturalmente, non
sembra essere quì riconosciuta come parte della fenomenologia mentale (Giommi, 2006). Per
avvicinarsi alla comprensione di questo processo è quindi importante sperimentarlo in prima
persona, tenendo però conto che nessuno di noi dovrebbe ritenere di conoscerlo in fino in
fondo ne di esserci arrivato tanto da incarnarlo sua vita (Kabat-Zinn, 2008). Infatti, indagando
la natura della coscienza, questa pratica investe nella più fondamentale delle domande
epistemologiche, e rappresenta un processo di ricerca continuativa di presenza nella vita che
difficilmente presuppone uno stato di “arrivo finale” (Giommi, 2006). La mindfulness
annovera fra i suoi obbiettivi quello di accrescere alcune abilità meta-cognitive che
permettono di reagire adattivamente ai processi mentali che contribuiscono ad originare e
mantenere la sofferenza psicologica e che rinforzano vari comportamenti mal-adattivi (Bishop
et al, 2004), e può essere coltivata dedicandovi appositamente del tempo (pratica formale)
oppure cercando di ricordarne i principi durante la vita di tutti i giorni (pratica informale)
(Siegel. et al, 2008).
La pratica formale
La pratica formale normalmente rappresenta il punto di partenza per avvicinarsi alla
mindfulness (Raza, 2012), e comporta quasi sempre una forma di meditazione che costituisce
una sorta di “esercizio mentale” (Bishop et al, 2004). Fra queste forme vi sono due modalità
principali, la samatha (o meditazione concentrativa) e la vipassana (o meditazione di
mindfulness), e la prima è propedeutica alla seconda.
La samatha
Il termine samatha proviene dalla lingua pali, e rappresenta una forma meditativa,
propedeutica alla vipassana, che conduce ad una modalità attentiva che si può raggiungere
stando seduti con una postura eretta, o in piedi, mediante la variante “camminata” (Edenfield
& Saeed, 2012). In tale posizione si focalizza l’attenzione su un oggetto fisso al fine di
impedire alla mente di vagare e di spostarsi su oggetti differenti secondo il suo autonomo
funzionamento, impegnandosi perciò a riportare la concentrazione sull’“ancora” scelta ogni
qual volta i pensieri si allontanano da essa. Normalmente il primo oggetto scelto come
riferimento per la mente è il respiro, e le sensazioni somatiche che esso evoca (Bishop et. Al,
2004), ad esempio la sensazione data dall’aria fredda che passa fra le narici ed arriva in fondo
ai polmoni, per poi fare il percorso al contrario, uscendo calda. Una tecnica equivalente è
quella del body scan (Segal et al, 2002). Questa sviluppa lo “spostamento attentivo”, un
abilità che permette di spostare la concentrazione fra diversi oggetti scelti, e che si allena
focalizzandosi sequenzialmente sulle sensazioni date dalle varie parti del corpo, prendendone
coscienza. Lo scopo di tale fase è quello di “bloccare temporaneamente la mente” e
mantenerla prolungatamente su un oggetto da noi scelto, sfuggendo al meccanismo che ci
porta ad essere sempre in balia dei nostri pensieri.
La vipassana
La seconda modalità, la vipassana, permette di raggiungere la vera e propria mindfulness, e
riflette un atto di percezione profonda che non è mediata dal pensiero discorsivo ne dal
linguaggio, e che è capace di generare insight profondi, intuitivi e non-concettuali (Giommi,
2006). Fare questo implica ampliare il proprio focus attentivo, svincolandolo dall’ancora ed
allargandolo a tutti gli elementi che si presentano alla coscienza: emozioni, sensazioni (fisiche
e non) ed eventi mentali. L’enfasi, in tale fase, è posta sul semplice prendere atto di qualsiasi
cosa accade nella mente per poi lasciarla andare, aprendosi a nuovi accadimenti (Edenfield &
Saeed, 2012). Non appena il praticante si accorge che non sta facendo questo riporta
pazientemente la concentrazione sull’ancora selezionata nella fase samatha (Segal et al 2002).
Non fare questo significa identificarsi con i propri pensieri o sentimenti e non osservarli
curiosamente ed apertamente in quanto solo eventi nella mente (Bishop et al, 2004), a volte si
attivano alcuni pattern di reazione automatici, si creano formulazioni concettuali oppure
orientamenti alla modificazione o sostituzione degli oggetti osservati, che non sono accettati
nella loro natura spontanea (Montano, 2010). Questa forma di meditazione propone il rifiuto
dell’adottamento di un focus attentivo su un oggetto preciso, e ciò non significa avere la
mente vuota, ne essere privi di emozioni, aggrapparsi alla felicità o rifuggire il dolore
(Roemer & Orsillo, 2002). Infatti chi medita deve lasciare la mente libera di esprimersi in
tutta la sua complessità e pienezza, limitarsi ad osservarla nel suo spontaneo agire ed esperire
appieno le emozioni, senza alcun tentativo di controllo su di esse. I pensieri non sono
considerati distrazioni, bensì oggetti d’osservazione (Bishop et. Al., 2004); quindi i praticanti
smettono di andare incontro alle richieste della loro mente, restando comunque vicini a questa
“lotta interiore”, dalla quale però non vengono travolti in quanto la osservano da un punto di
vista distaccato (Kabat-Zinn, 1996) ponendosi in una relazione decentrata rispetto ai loro
contenuti mentali. Un importante obbiettivo generale è quello di comprendere come funziona
la psiche, e scoprire come essa genera la sofferenza psicologica, per realizzare con quale
rapidità spesso si reagisce ai problemi saltando subito al tentativo di risolverli prima ancora di
averli osservati.
La metta
Come anticipato, la samatha è propedeutica alla vipassana, e ad entrambe può essere
applicata la metta. Quest’ultima consiste in una ulteriore modalità di sperimentazione delle
esperienze che sono oggetto dei focus delle meditazioni descritte fino ad ora, e si pratica
colorando l’osservazione degli eventi di un intenzione, quella di accoglierli con “accettazione
amorevole” (Dobkin, 2008). Implica la curiosità e l’apertura verso qualsiasi contenuto che si
incontra, il quale deve essere esente da giudizi, ed accolto come un visitatore gradito,
indipendentemente dalla sua natura (Edenfiel & Saeed, 2012). Non significa cercare di
sostituire alle emozioni presenti altre che siano “più positive”, bensì assumere un
atteggiamento di accoglienza e benevolenza verso qualsiasi esperienza che si incontra. Ciò
comporta una maggiore apertura ai contenuti “difficili” in quanto accettare le esperienze
sgradevoli aumenta la capacità di sopportarle (Hayes, Roemer & Orsillo, 2010).
La pratica informale ed il pilota automatico
La meditazione rappresenta il metodo più diretto per comprendere e sperimentare la
mindfulness nel suo senso stretto, ma questa prospettiva può in una certa forma essere assunta
anche nella vita di tutti i giorni, essendo interpretata in questo caso come un “modo di essere”
(Kabat-Zinn, 2008). Agire secondo le linee guida proposte dalla mindfulness permette di
disinserire quello che vari autori chiamano “pilota automatico”, espressione metaforica che
esprime come spesso, nella nostra società, ci si rapporta alle esperienze. Segal, Williams e
Teasdale (2002) individuano due modalità principali attraverso cui opera la mente al fine
spiegare in termini più pratici come funziona il sopracitato, che sono denominate del “fare” e
dell’“essere”.
La modalità del fare
La prima è indicata come la più comune nella nostra società, ed è legata ad un processo di
costante monitoraggio della discrepanza fra come le cose sono e come vorremmo che fossero;
si origina così un senso di insoddisfazione rispetto all’esperienza presente, con il conseguente
innescamento di meccanismi di reazione (Montano, 2002) finalizzati alla riduzione del
suddetto divario. Le risposte generate possono essere consapevoli, ma nella maggior parte dei
casi sono veloci ed inconsce, cioè “automatiche”; ed alle volte risultano adattive, mentre a
volte mirano a ridurre il disagio solo a breve termine, implementando paradossalmente il
meccanismo che lo origina. Se la natura degli oggetti che causano il divario impedisce un
azione di modifica diretta, tale funzionamento cerca di individuare alcune idee considerate
responsabili, e vi concentra il focus al fine di reagire. Quando l’azione di correzione sui
contenuti interni non riduce il sentimento negativo, di fronte al “fallimento” aumenta il
disagio, avviando quindi la ricerca di altri elementi sui quali lavorare. Così le persone si
allontanano sempre più dalla realtà, astraendosi nel passato, nel futuro, o in ipotesi mentali. Il
pensiero si muove fra gli oggetti che considera collegati alla discrepanza, e li attualizza nella
consapevolezza anche se essi siano solo “rappresentazioni” cognitive (Segal et al, 2002). In
questo consiste il “pilota automatico”, che si inserisce nella nostra quotidianità, specialmente
durante azioni abituali (come il mangiare), e conduce a stati di non presenza, la quale,
secondo la prospettiva mindfulness, è possibile solo in relazione al qui ed ora.
La modalità dell’essere
La seconda modalità è detta “dell’essere”, e può essere considerata l’opposto di quella “del
fare”. È caratterizzata dall’ assenza di motivazione al raggiungimento di obbiettivi, ossia dalla
capacità di accettare e lasciar essere ciò che è, senza alcuna pressione per modificarlo. Questo
permette di arrestare il monitoraggio della sopracitata discrepanza e quindi di indirizzare
l’elaborazione mentale alle informazioni contenute nell’esperienza del qui ed ora, la quale
può essere vissuta in profondità solo se si valorizza la complessità delle irripetibili
configurazioni che ogni momento della vita offre. (Segal et al, 2002). Il passaggio dalla
modalità del fare a quella dell’essere è fondamentale durante la ricerca della minfulness
(Giommi, 2006).
CAPITOLO DUE
LA MINDFULNESS COME RISPOSTA AI MECCANISMI DELL’ANSIA
Dopo aver presentato la mindfulness nei suoi aspetti generali è possibile estrapolarne quei
fattori che interessano i casi in cui la sofferenza psicologica è causata dall’ansia. L’obbiettivo
di questo capitolo è infatti quello di presentare come funzionano particolari meccanismi
cognitivi disfunzionali che agiscono su chi sperimenta elevati e persistenti livelli di ansia
generalizzata, ed indagare come alcuni elementi della mindfulness possano rispondervi
apportando benefici a queste persone. L’ansia è un fattore altamente correlato con vari
disturbi psicopatologici che si sviluppa lungo un continuum che si estende dagli stati emotivi
facilmente gestibili ai disturbi da attacchi di panico (Siegel, 2008), e che può causare forme di
disagio molto differenti fra di loro. In questa sede non verranno considerate le caratteristiche
che questo stato o sentimento assume in casi clinici specifici, ma si piuttosto il ruolo che
generalmente assume in relazione al disagio delle persone.
LE CREDENZE META-COGNITIVE CIRCA IL RUOLO DEI PENSIERI
Un elemento che contribuisce ad aggravare il vissuto soggettivo degli stati ansiosi è la
credenza (riscontrabile anche in persone senza particolari problemi psicologici) che riguarda
la presunta incontrollabilità dei nostri pensieri, e l’eccessivo valore che diamo ai contenuti di
questi. Corrado Pensa sostiene che l’attaccamento al pensiero, alla concettualizzazione e
verbalizzazione mentale è uno di quelli più forti e radicati nella nostra società (Segal et al,
2002), cosi capita, come già anticipato nel capitolo precedente, che ci si senta “fusi” con i
propri pensieri, e li si consideri espressione della realtà e di quello che si è, piuttosto che
semplici eventi interni (Weels, 2009). L’ansia è in parte mantenuta da questo processo di
identificazione con pensieri, sentimenti, immagini mentali, sensazioni corporee, e dalla
conseguente relazione problematica che si instaura con tali esperienze interne (Hayes et al,
2010). Infatti chi soffre a causa di questo stato spesso riferisce un senso di persuasività ed
incontrollabilità rispetto alle proprie attività cognitive (preoccupazioni), che risultano difficili
da far ricadere nella categoria di “pensieri automatici” (Roemer & Orsillo, 2002; Weels
2009). La nostra società apprezza i tentativi di controllare le esperienze interne e da qui ha
origine l’idea che si potrebbe ridurre il disagio emozionale se ci si sforzasse abbastanza, ma
spesso ci si trova a dover fronteggiare il fatto che non ne si è sempre capaci (Hayes et al,
2010). A volte le persone interpretano questa incapacità come un sintomo di “pazzia”, il che
contribuisce ad aumentare lo stress e ad originare valutazioni negative rispetto alla proprie
esperienze intime.
Questo tipo di disagio è causato da alcune credenze di tipo meta-cognitivo circa il ruolo dei
pensieri nella vita delle persone. Le teorie basate sulla mindfulness propongono un
cambiamento fondamentale nella prospettiva da assumere e nel modo di relazionarsi alle
proprie esperienze interne (Siegel et al, 2008) che può essere di aiuto nel migliorare il
rapporto con esse. Nel momento in cui ci si sente fusi con i propri pensieri, se essi risultano
collegati a forti reazioni emotive, è normale reagirvi con disagio, percezione di impotenza ed
auto-valutazioni negative; per questo disidentificarsi rispetto a loro e ricordarsi che
rappresentano solo eventi transitori (Weels, 2009), aiuta a modificare le credenze circa
l’incontrollabilità di questi processi (Weels, 2009) e l’importanza che comunemente gli si da.
Per affrontare circoli di pensieri ripetitivi e automatizzati a volte risulta poco utile cercare di
modificare lo specifico contenuto di questi, e per tale ragione gli approci mindfulness-based si
concentrano sui meccanismi che li tengono in vita (Vøllestad, Sivertsen, & Nielsen, 2011),
promuovendo una relazione alternativa da raggiugere attraverso il decentramento (Raza,
2012). Gli esercizi della fase samatha della pratica meditativa hanno lo scopo di “calmare la
mente” (Edenfield & Saeed, 2012), e fare ciò aiuta ad aumentare il controllo percepito rispetto
ai propri eventi interni, smentendo l’idea che la minaccia più grande sia la propria testa.
Questa pratica permette di uscire momentaneamente dal nostro “trance” quotidiano
(Borkovec, 2002) interrompendo il controllo che l’attività cognitiva esercita su di noi, e
promuovendo un senso di presenza nella propria vita indipendente dalla fenomenologia
mentale.
L’EVITAMENTO ESPERIENZIALE E L’ACCETTAZIONE CURIOSA
Le psicopatologie legate all’ansia sono caratterizzate da forti tendenze ad evitare tutte quelle
situazioni considerate minacciose in quanto elicitanti di stati “incontrollabili” e sgradevoli
(Edenfield & Saeed, 2012). Le persone che soffrono di ansia cronica sono costantemente
impegnate nel monitoraggio della presenza di eventuali minacce, e rilevano quindi ogni
segnale che potrebbe predire il presentarsi di una situazione temuta (Hayes et al, 2010). I
segnali monitorati sono soprattutto eventi interni, piuttosto che esterni, infatti la
preoccupazione risulta in sé un esperienza sgradevole, ed il tentativo di evitarla porta al
controllo degli indizi anticipatori di un suo eventuale insorgere (Roemer & Orsillo, 2002). I
giudizi negativi rispetto alle proprie esperienze di ansia ed alla correlata reazione fisiologica,
affettiva e mentale, insieme alla paura per un loro insorgere, portano all’attivazione di una
costante rappresentazione cognitiva di questo stato (Borkovec, 2002), il che contribuisce alla
creazione del meccanismo di “paura per la paura” (Barlow, 2002 in Didonna, 2008). Per
esempio, se gli attacchi di panico sono un evento abbastanza comune (il 30% della
popolazione ne sperimenta uno; Barlow, 1991 in Didonna, 2008) è chi ha paura di
sperimentarne un altro che ha più probabilità di sviluppare un disturbo da attacco di panico
(Weels, 2009). Questo meccanismo, unito al fatto che immaginare un evento traumatico può
causare lo stesso disagio che si sperimenterebbe al suo verificarsi (Hayes et al, 2010), crea un
forte desiderio condizionato di evitare le proprie esperienze interne negative, atteggiamento
che spesso è erroneamente considerato come il più adattivo. Questa difesa riduce
effettivamente l’esperienza emozionale spiacevole (ed è quindi rinforzata negativamente da
un meccanismo di “assenza della sofferenza”, Hayes et al, 2010) però lo fa a solo a breve
termine (Roemer & Orsillo, 2002); ed al contrario, quando la si usa spesso, essa causa una
serie di problemi a lungo andare che, rispetto alle situazioni che si affronterebbero vivendo
appieno l’esperienza, sono più difficili da gestire in quanto è impossibilitata l’elaborazione
delle emozioni (che sono informazioni importanti) (Roemer & Orsillo, 2002), ed è bloccata la
possibilità di un “nuovo appredimento” circa lo stimolo percepito come minaccia. Inoltre,
siccome tentare di sopprimere un elemento mentale target rafforza la pre-attivazione di questo
(Roemer & Orsillo, 2002), la capacità di rilevarlo quando si presenta aumenta e, se lo stimolo
è considerato una prova della presenza di un pericolo, il risultato sarà un focus ancor più
ristretto su di esso (Siegel et al, 2008). Così facendo le reazioni cognitive, affettive e
fisiologiche reagiscono secondo un modello di ansia prolungata caratterizzato da reazioni
automatiche e che implementa questo circolo vizioso (Weels, 2009). Inoltre il fallimento nel
tentativo di bloccare i pensieri indesiderati può essere interpretato come una perdita di
controllo, aumentando così la minacciosità attribuita all’evento (Weels, 2009) e rafforzando le
credenze circa l’incontrollabilità di tali processi interni (Segal et al, 2002). Questa percepita
impossibilità di gestione della situazione, caratterizzata da meccanismi rigidi ed abituali,
aumenta il valore attribuito al rinforzo costituito dall’“assenza di sofferenza”, e di
conseguenza il ricorso all’evitamento come strategia risolutiva (Hayes et al, 2010).
L’evitamento costituisce una reazione automatizzata che gioca un ruolo importante nel
mantenimento delle difficoltà legate all’ansia, in quanto non affrontare il problema aggrava la
situazione e prolunga la sofferenza (Greeson, 2008). Evitare le esperienze cognitive e
situazionali difficili interferisce con il normale processo di adattamento psicologico, blocca
l’elaborazione delle immagini intrusive, mantiene l’attenzione costantemente focalizzata sul
pericolo (Weels, 2009) e limita il repertorio di attività appaganti e piacevoli che
contribuiscono a ridurre lo stress delle persone (Hayes et al, 2010). L’intolleranza rispetto alle
proprie esperienze personali costituisce un importante fattore di mantenimento delle strategie
di evitamento, e per questo le terapie basate sulla mindfulness considerano centrali le qualità
di accettazione e curiosità che devono caratterizzare l’attenzione che si rivolge alla propria
esperienza. Rendersi disponibili ad esperire le proprie emozioni interne aumenta la capacità di
riconoscerle e descriverle, e tale abilità è essenziale nella costruzione di una raffinata auto-
conoscenza, necessaria se si vuole pianificare azioni consapevoli e svincolate dalle abituali
reazioni automatiche (Roemer & Orsillo, 2002; Edenfield & Saeed, 2012). La mindfulness
insegna una modalità attentiva generale che risulta particolarmente utile quando ci si pone di
fronte ad esperienze difficili (Segal et al, 2006), e che propone, in alternativa alla fuga, di
“girarsi e penetrarle”. La visione della mente proposta aiuta a rafforzare la tolleranza agli
affetti negativi (Bishop et al, 2004), e ad assumere una prospettiva decentrata che permetta di
non essere immersi nel dramma della narrativa della nostra personale e di fare un passo
indietro, diventandone testimoni (Shapiro et al, 2006, in Didonna, 2008). Come già accennato,
molte persone con livelli di ansia elevati rifiutano l’esposizione a quelle esperienze interne
che non accettano e che considerano minacce in quanto elicitano stati considerati
insopportabili ed irrisolvibili. Se la meta-cognizione proposta da questo approcio aiuta a
diminuire l’incontrollabilità percepita di questi fenomeni, l’accettazione aumenta la capacità
di sopportarli e la curiosità ne incentiva l’esposizione, che è finalizzata alla scoperta della
natura e del funzionamento dei meccanismi che li alimentano. Durante la fase meditativa
vipassana qualsiasi stato emotivo che si presenta fa parte del dominio della nostra attenzione
(Kabat-Zinn, 1996), e questo aiuta ad allargare il focus che il pilota automatico, in molte
persone ansiose, mantiene ristretto sugli aspetti disagevoli e minacciosi delle esperienze
(Barlow, 2002, in Didonna, 2008). Infatti una risposta adattiva alla paura (in termini
evoluzionistici) consiste in un focus centrato sulla minaccia (Greeson, 2008), però se il
pericolo non è reale (in quanto rappresentato da uno stato interno auto-generatosi) tale
meccanismo impedisce la considerazione degli elementi che non contengono avversità. A
questo proposito la curiosità esperienziale permette di considerare il suddetto focus come solo
una parte di un panorama multi-sfaccettato di eventi (Weels, 2009), e di ridimensionare
l’importanza attribuita al problema. L’accettazione delle cose per come sono è fondamentale,
ed è importante chiarire che essa non rappresenta una forma di rassegnazione (Hayes et al,
2010). Per risolvere un problema occorre anzitutto esserne consapevoli, ed esserlo implica
accettare la sua natura spontanea (in caso contrario la comprensione si riferirebbe a percezioni
distorte, Brown & Ryan, 2004, in Raza 2012); questo non significa necessariamente
approvare la situazione o trovarla di proprio gradimento (Edenfield & Saeed, 2012), ma
permetterle momentaneamente di essere come è, rinunciando al processo attivo di “ricerca di
altro” (Segal et al, 2002). Non giudicare gli eventi come dei problemi e non identificarsi con
essi permette successivamente di rispondergli, piuttosto che limitarsi a reagirvi
immediatamente (Siegel et al, 2008). Per fare questo occorre sospendere intenzionalmente
l’impulso a definire e valutare l’esperienza attraverso i filtri delle nostre credenze, assunti o
aspettative (Kabat-Zinn, 1996), guardarla direttamente immaginando di avere gli occhi di un
bambino (Bishop et al, 2004) e non cercare di modificare alcunché (Moderato, 2010). Un'altra
caratteristica dell’attenzione che è proposta dalla mindfulness risulta utile con le persone che
soffrono d’ansia. La formulazione delle preoccupazioni spesso è verbale poiché ciò permette
di razionalizzarle ed analizzarle senza sperimentare il pieno impatto emotivo che eliciterebbe
la “catastrofe” ipotizzata (Roemer & Orsillo, 2002). La verbalizzazione può essere pertanto
intesa come una leggera forma di evitamento, ed a questo proposito il fatto che la vipassana
implichi un attenzione non concettuale ne dialettica può essere di aiuto per incentivare le
persone ansiose ad esporsi agli stimoli. In conclusione bisogna considerare due elementi che
possono condurre ad un paradosso. Il primo è rappresentato dall’ipotesi che l’accettazione non
sia accompagnata alla comprensione dei fenomeni, in questo caso tale meccanismo porterebbe
alla non considerazione di quei problemi che invece devono essere affrontati (Hayes et al,
2010), implementando quindi il meccanismo di evitamento, ed il fattore “curiosità” risulta
importante proprio perché stimola la ricerca di una comprensione profonda. Il secondo è dato
dal fatto che a volte tale meditazione porta a vivere esperienze interne molto difficili e
faticose (al punto da dare un iniziale impressione che le cose vadano peggio e non meglio,
Kabat-Zinn, 1996), ma spesso causa una sensazione di rilassatezza (Edenfield & Saeed,
2012), soprattutto se limitata alla fase samatha. In questo caso può capitare che alcune
persone la usino come forma di evitamento rispetto ai propri pensieri (che riescono cosi ad
essere “fermati”), e mal-interpretino così il senso di questa tecnica; il terapeuta deve tenere
conto di tale possibilità, ricordare ai pazienti gli obbiettivi del metodo e integrare compiti di
attivazione emotiva durante la pratica (Kabat-Zinn, 2003), per incoraggiarli a rimanere in
contatto con i loro contenuti interni difficili (Bishop et al, 2004).
L’IMPORTANZA DEL “QUI ED ORA”
Le persone che soffrono di ansia spesso hanno uno stile cognitivo orientato al futuro,
caratterizzato da una visione “catastrofica” che porta a generare ipotetiche relazioni fra gli
eventi presenti ed i possibili esiti negativi ai quali essi potrebbero condurre (Greeson, 2008;
Edendield & Saeed, 2012). Così si origina un monitoraggio orientato agli elementi considerati
“predittori” di fatti sgradevoli, sostenuto dalla credenza che questo migliorerà la capacità di
controllarne l’insorgere, di reagirvi in maniera migliore o di riuscire ad evitarli (Borkovec,
2002). Nelle persone con livelli di ansia clinicamente rilevanti vi è spesso una tendenza a
considerare minacciosi molti elementi del presente, che essi mettono in relazione con ipotetici
fatti spiacevoli futuri, stabilendo relazioni causa-effetto spesso irrazionali o esageratamente
deterministiche (Barlow, 2002 in Didonna, 2008). La minacce percepite causano una
difficoltà di relazione con il presente, in quanto elicitano una anticipatoria rappresentazione
cognitiva di ipotetici eventi temuti (con conseguenti vissuti emotivi negativi)(Hayes et al,
2010), e portano a meccanismi di evitamento esperienziale riferiti ad elementi di per se non
pericolosi, ma valutati come tali. Questo orientamento guida la coscienza a focalizzarsi su
realtà presenti distorte, che contengono elementi che attivano le stesse reazioni che
eliciterebbero i futuri immaginariamente ipotizzati. Il risultato è una lotta contro pericoli
internamente auto-generati, che non sono affrontabili, in quanto nel momento presente essi
non esistono. L’ansia elicita reazioni di attacco o fuga, ma se non c’è una situazione reale
dalla quale fuggire od un problema da affrontare la risposta spesso consiste in un
“congelamento” (Borkovec, 2002). Questa situazione contribuisce ad aumentare il senso di
impotenza percepita rispetto alle difficoltà, e quindi il costante processo di monitoraggio di
quelle situazioni che le persone pensano di poter solo evitare preventivamente, “prima che
accadano” (Weels, 2009). L’evitamento comportamentale non è adattivo, infatti la difficoltà
non è riscontrabile nel mondo esterno in quanto risiede in un meccanismo mentale che la
genera e la associa ad eventi di per se non problematici; mentre quello esperienziale (inteso in
relazione alle proprie condizioni interne) rinforza gli automatismi ed i circoli viziosi descritti
nei paragrafi precedenti, nei quali il nemico principale è rappresentato da uno stato emotivo,
normalmente temporaneo, caratterizzato da ansia e sul quale ci si “blocca” (Roemer &
Orsillo, 2002). La preoccupazione diminuisce la sensazione di “incertezza” che il futuro
normalmente trasmette a tutti, ed è rafforzata quindi da una visione deterministica degli eventi
che funge da “guida” ai comportamenti, e riduce pertanto temporaneamente le sensazioni di
blocco e disorientamento che caratterizzano lo stato d’ansia (Roemer & Orsillo, 2002). Tale
visione porta a caratterizzare le proiezioni di se stessi nel futuro con questo sentimento che
viene pertanto esperito come pervasivo e definitore della propria identità (Greeson, 2008).
Ciò, insieme alla sovrastimata pericolosità del mondo, porta ad un restringimento del proprio
repertorio comportamentale, dal quale vengono escluse anche attività piacevoli che
contribuirebbero a ridurre lo stress di queste persone (Hayes et al, 2010). Inoltre bisogna
considerare che vivere la vita appieno comporta dover sperimentare momenti d’ansia (come
anche dolorosi) elicitati da situazioni comuni, e se si è abituati a difendersi in una “campana
di vetro” risulta più difficile, quando si prova ad uscirne, tollerare anche eventi che sono
realmente stressanti, implementando così il circolo vizioso che porta alla generazione di
minacce ed all’evitamento.
Le preoccupazioni spesso non sono rappresentate da paure specifiche, ma hanno orientamenti
generali, contenuti diversificati, e si generano in situazioni varie e disparate (Roemer &
Orsillo, 2002). Ciò che hanno in comune spesso è solo il meccanismo che le genera e le adatta
alle situazioni, per questo, quando ci si trova di fronte a meccanismi di pensiero ripetitivi ed
automatici, è difficile affrontarne i contenuti specifici, siccome finche non è disinnescato il
sistema esse continueranno ad essere originate (Segal et al, 2002). L’enfasi che la prospettiva
della mindfulness pone sull’importanza di orientare la coscienza verso il “qui ed ora” risulta
particolarmente utile per affrontare due processi di pensiero ripetitivo in particolare, che
caratterizzano due fra i più diffusi problemi psicologici: gli stati depressivi e ansiosi
(Desrosiers, Vine, Klemanski, & Nolen-Hoeksema, 2013b). Essi sono rispettivamente la
ruminazione, che è contraddistinta da un forte orientamento al passato (Segal et al, 2002), e la
preoccupazione, qui descritta. Come afferma Kabat-Zinn (2003), l’unico momento che si ha è
quello presente, e la consapevolezza non può che riferirsi ad esso, pertanto qualsiasi
percezione non riferita a questo risulta distorta dai processi di elaborazione mentale (consci o
inconsci), ed eccessivamente vincolata alla narrativa interna. Durante la meditazione
vipassana l’attenzione è rivolta alle esperienze del momento istantaneamente presente, ed i
ricordi o le proiezioni nel futuro (ad esempio le aspettative) sono da osservare come eventi del
momento attuale, considerando sempre che essi non “sono” ne il passato ne il futuro, in
quanto mostrano soltanto una rappresentazione semplificata ed inevitabilmente distorta che la
mente crea circa questi. Prestare attenzione al dispiegarsi dell’esperienza momento per
momento secondo le modalità indicate dall’approcio mindfulness permette di realizzare che
gli oggetti dei pensieri spesso non esistono se non nella propria mente, al fine di liberarsi degli
illusori passato e futuro concentrandosi sul non-illusorio presente (Borkovec, 2002) e scoprire
come tali rappresentazioni influenzano il nostro vivere (Segal et al, 2002). Le persone che
soffrono di ansia a volte lo fanno anche se la situazione in cui sono non presenta problemi,
poiché si pongono in relazione ad una realtà che non esiste guidati dal pilota automatico, ed in
questa ottica risulta chiaro quanto sia difficile superare delle difficoltà poste dalla propria
mente senza disidentificarsi da essa.
CONCLUSIONI
Le pratiche meditative che si basano sui presupposti della mindfulness mirano
all’instaurazione di un rapporto sereno e costruttivo con le proprie esperienze intime, che si
ritiene essere utile nella riduzione del disagio psicologico. L’inserimento di questa prospettiva
in programmi terapeutici aiuta a sviluppare nel paziente alcune abilità, in particolare meta-
cognitive, che gli permettono di affrontare in maniera più efficacie non le sue specifiche
difficoltà, quanto piuttosto i meccanismi mentali che spesso le generano. Tale
concettualizzazione è nata ed è stata articolata nella tradizione Buddhista, dove un importante
idea è che le persone non sono i loro pensieri, in quanto la mente è da considerare un senso
percettivo da aggiungere ai cinque che la cultura occidentale riconosce. Essa funge da ponte
fra la coscienza delle persone ed il mondo, e fornisce alla consapevolezza individuale una
rappresentazione della realtà, apportando dati che normalmente sono filtrati da
condizionamenti e sistemi di significati. L’attaccamento al pensiero è molto forte,
comunemente esso viene considerato espressione dell’essenza delle cose, ed è per tale ragione
che le persone si identificano con le storie che raccontano su se stessi, e si relazionano alle
narrative mentali che descrivono le loro esperienze come se queste incarnassero l’esperienza
vera e propria. È comune provare emozioni o pensare cose che non si considerano espressioni
di quello che si è, e la prospettiva mindfulness insegna che non necessariamente la
fenomenologia mentale è identificatrice della personalità di chi la sperimenta. A mio parere
può essere esplicativa l’idea che come è difficile esprimere oralmente la complessità che
caratterizza il vissuto interno di una persona senza semplificarla o distorcerla, allo stesso
modo è difficile descriverla a se stessi sotto forma di costrutti verbali mentali, in quanto la
parola è una costruzione logica, che non si riconosce con gli oggetti, ma cerca solo di farvi
riferimento nella maniera più fedele possibile. Guardare un dipinto che rappresenta un
paesaggio non è la stessa cosa che essere dentro quel paesaggio. La mindfulness propone una
modalità di osservazione delle proprie esperienze interne che parte da una prospettiva
decentrata dalla quale non bisogna identificarsi con loro, ma osservarle con accettazione e
curiosità, per cercare di comprenderle. L’accettazione permette di bypassare i “filtri della
mente”, costituiti da significati e condizionamenti, e permette la presenza degli oggetti senza
alterarne la natura. La curiosità stimola una diretta investigazione rispetto al funzionamento
generale dei meccanismi di distorsione, per indagare come essi siano generati ed interagiscano
reciprocamente. Personalmente credo che l’unicità che caratterizza ogni individuo porti
all’origine di problemi estremamente intimi e vari, tramite l’interazione di moltissime
variabili. Pertanto in molti ambiti clinici si possono riconoscere elementi condivisi fra
differenti casi, e, supponendo modalità comuni di funzionamento della mente, utilizzarli,
attraverso la considerazione di varie ipotesi, come tracce guida per stimolare i pazienti a
prendere coscienza di come si originino ed agiscano le loro difficoltà psicologiche. Però
questa presa di consapevolezza non può avvenire senza un lavoro attivo da parte del paziente,
che è l’unico che può sondare la sua incomunicabile realtà interiore nella sua natura più
sincera tramite l’introspezione, abilità il cui sviluppo è obbiettivo delle pratiche mindfulness.
È molto frequente che, di fronte ad una difficoltà interiore, le persone bypassino la fase della
sua osservazione e comprensione, per saltare direttamente al tentativo di risolverla, ricorrendo
spesso a meccanismi automatici che talvolta si rivelano controproducenti (Segal et al, 2002),
problema cui tale prospettiva cerca di rispondere. La capacità di osservare e comprendere i
propri fenomeni interni non rappresenta in sé la soluzione ai problemi, ma pone le basi ad
essa, in quanto permette alle persone di agire in maniera pianificata e consapevole,
indirizzando verso risposte più adattive ai problemi. La mindfulness è un costrutto trans-
diagnostico, che riflette una visione generale dell’uomo e del suo modo di rapportarsi al
mondo oltre che a se stesso; essa presenta differenti aspetti che possono apportare benefici ad
una vasta gamma di persone, ed è per questo che, in ambito clinico, occorre comprendere
quali siano i fattori implicati nella risposta a problematiche specifiche. Se proposto alle
persone che soffrono a causa di livelli clinicamente significanti di ansia (senza fare
riferimento a quadri diagnostici specifici) tale orientamento gioca un ruolo fondamentale nella
rottura di alcune credenze e meccanismi, che sono perlopiù automatizzati e che mantengono il
disagio. La meta-cognizione adottata da tale prospettiva permette di disincentivare i tentativi
di controllo delle proprie esperienze mentali, i cui fallimenti portano a percezioni di
incontrollabilità rispetto ai propri fenomeni interni legati all’ansia, con la conseguente
formulazione di giudizi negativi in relazione alla capacità di rispondere adeguatamente a
queste difficoltà. Il punto di vista decentrato e le caratteristiche di curiosità ed accettazione
dell’osservazione favoriscono la comprensione dei paradossi a cui portano gli sforzi di evitare
i pericoli che elicitano lo stato d’ansia. Fra di essi il principale è rappresentato dal fatto che,
quando non si accetta tale esperienza, i segnali che potenzialmente la possono predire, come
le proprie attivazioni fisiologiche e cognitive, vengono investiti del ruolo di “minacce”
rinforzando di conseguenza l’inasprimento dei sintomi ansiosi. Si instaura così un circolo
vizioso di “paura per la paura” che, unito alla percepita incapacità di gestione dei propri
processi interni, rinforza l’uso sistematico di strategie di evitamento. La mindfulness permette
di prendere coscienza della non adattività di questa risposta, ed incentiva l’esposizione alle
esperienze in una modalità (decentrata) che aumenta la tolleranza agli stati interni difficili e
facilita il processamento emotivo. La considerazione esclusiva della dimensione del qui ed
ora suggerita da tale approcio oggettiva le aspettative verso il futuro (così come i ricordi) in
quanto avvenimenti del momento presente, che devono essere adeguatamente contestualizzati.
Adottare questa prospettiva rompe il meccanismo per il quale, chi soffre di preoccupazione
cronica, ipotizza continuamente possibili eventi negativi futuri e li mette in relazione con gli
oggetti monitorati nel presente, stabilendo arbitrariamente delle relazioni di causa-effetto. Il
risultato è un utilizzo di strategie di evitamento di fronte ad elementi non problematici, con
una conseguente riduzione del repertorio comportamentale, dal quale vengono eliminate
anche varie attività appaganti che contribuirebbero allo smaltimento dello stress. È
importante chiarire che accettare un oggetto non implica il trovarlo di proprio gradimento, ma
soltanto il permetterne momentaneamente la presenza nella sua natura spontanea, per
osservarlo, comprenderlo ed eventualmente, in un secondo tempo, agire per modificarlo a
fronte di una scelta consapevole. La mindfulness, nella sua concettualizzazione più radicale,
non propone ne soluzioni ai problemi ne esplicazioni circa casi specifici, e si allontana da
visioni deterministiche riconoscendo l’unicità delle esperienze personali, responsabilizzando
gli individui e, soprattutto, fornendo loro i mezzi per diagnosticare la “malattia” per cui
soffrono, secondo uno schema di: osservazione, comprensione e, solo per ultima, azione.
Personalmente credo che essa possa fornire a persone che soffrono a causa di difficoltà
psicologiche ridotte utili strumenti per alleviarle, e rappresenti un efficace approcio da
affiancare a terapie dirette a casi patologici più difficili.
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